Il silenzio che ha avvolto la figura di Marcos Gutiérrez nell’ultimo anno non deve trarre in inganno, poiché, nel mondo dell’arte concettuale, l’assenza non è mai per forza soltanto un vuoto, bensì una camera di compressione dove il pensiero si fa racconto, parola, colore, immagini, storie, prima di esplodere nuovamente sulla tela.
Lontano dai riflettori e dalle dinamiche talvolta sterili del circuito delle gallerie, l’artista si è immerso in una fase di auto-reclusione creativa, un ritiro monastico necessario per calibrare la frequenza di una nuova, potente narrazione che culminerà in una mostra personale prevista per il 2026.
Ciò che emerge dalle anteprime di questa nuova collezione è la testimonianza di una maturità inquieta.
La visione artistica di Gutiérrez si è radicalizzata.
Se in precedenza la sovrapposizione tra soggetto e rumore visivo era un dialogo, ora è diventata una fusione nucleare. E no, non è un’esagerazione.
L’artista interpreta la realtà contemporanea come un palinsesto frenetico dove l’identità umana rischia costantemente l’oblio, soffocata da loghi, slogan e icone della cultura di massa.
Nelle opere figurativo-gestuali, il volto umano rimane il perno centrale, ma è un perno sotto assedio.








Osservando l’inserimento di nuove iconografie, come la silhouette che richiama il celebre topo disneyano in opere dominate da scritte come “PRADA” o “GUCCI”, si nota uno scarto semantico fondamentale che collega il racconto sociologico alle mode imperanti del nostro tempo.
Non è un semplice omaggio al Pop, ma una critica matura, quanto feroce, alla “disneyficazione” del lusso e dell’esistenza stessa. Alla spettacolarizzazione di tante, troppe dinamiche del vivere.
Quella sagoma nera, che si staglia come un’ombra ludica ma inquietante sul petto del soggetto, funge da buco nero che assorbe il significato, suggerendo che nel 2026 l’infantilizzazione del consumatore sarà l’unica religione rimasta.
Gutiérrez utilizza uno stile che fonde l’iperrealismo dello sguardo, con occhi liquidi, di una profondità abissale, che sembrano chiedere salvezza, con la brutalità della street art.
Le peculiarità stilistiche sono inconfondibili, nel suo uso di cromatismi al neon, acidi e sfacciati, con cui non cerca più solo l’armonia, ma lo shock retinico che catturi attenzione.
Perché Gutiérrez, seppur con classe e raffinatezza, pretende, ascolto. Non tanto per pavoneggiarsi, ma perché le persone possano ritagliarsi il giusto tempo per riflettere sulla vita e sul mondo, ponendosi quelle domande esistenziali che le mode frenetiche del nostro tempo sembrano volerci impedire di porci.








C’è una tensione palpabile tra la resa morbida, quasi tattile, della pelle e le colature di vernice che scendono come lacrime sintetiche o sbarre di una prigione cromatica.
Ma è nelle opere astratte, quelle schegge geometriche che sembrano cristalli esplosi, che comprendiamo la vera filosofia di Gutiérrez. Perché quei frammenti prismatici non sono decorativi, ma sono la rappresentazione dell’Io frantumato.
Se i ritratti mostrano la maschera sociale, le astrazioni registrano ciò che accade sotto la pelle, una deflagrazione ordinata di emozioni compresse.
La semiotica del suo lavoro, infatti, è un campo minato di parole come “POP”, “LOVE”, “DREAM” e “CASH”, che fluttuano sullo stesso piano gerarchico, annullando la distinzione tra il sacro e il profano, tra lo scarto biologico e l’aspirazione onirica.
Qui si trova tutta la potenza della filosofia di Gutiérrez, che si regge su una domanda: in un mondo dove tutto è merce, dove si posizionano l’anima e la dignità?
L’artista non ci dà risposte consolatorie, ma ci offre uno specchio deformante, magnificamente dipinto, in cui la bellezza combatte corpo a corpo con il caos.
Questa fase di “latitanza” artistica sta permettendo a Gutiérrez di affilare le armi del suo linguaggio, di renderlo più diretto, rapido, efficace.
Le opere che vediamo oggi come anteprima somigliano ai primi vagiti di un nuovo paradigma estetico che vedrà la luce solo nel 2026.
Un’antropologia visiva che trasforma la materia in un documento storico del futuro, un futuro in cui l’umanità cercherà di emergere, ansimante e bellissima, da sotto una montagna di marchi e colori fluorescenti che sono nuovi dei di nuove religioni.
L’attesa per il suo ritorno non è solo curiosità per un evento mondano e per scoprire cos’abbia partorito un artista come Gutiérrez, ma è la necessità intellettuale di vedere come questo maestro del caos deciderà di riordinare, ancora una volta, i frammenti della nostra coscienza.










