TRA IPERREALISMO E GRAFFITI: IL LABIRINTO CROMATICO DI UN VISIONARIO
Immaginate di camminare in una metropoli dove i volti hanno occhi che parlano e muri che sanguinano colori. È in questa dimensione che vive l’arte di Marcos Gutiérrez.
Ogni sua tela è una città in miniatura, un labirinto di simboli che seduce e ferisce. I volti di donne con labbra rosse come ferite aperte e sguardi che sfondano la tela, emergono da sfondi caotici, un turbine di graffiti, elementi liquefatti che sono simboli del nostro tempo.
La sua arte non è decorazione, ma un’autopsia della modernità. Gutiérrez seziona la realtà per mostrarne le vene nascoste sotto la pelle luccicante del consumismo.
Le sue opere sono specchi che riflettono non ciò che siamo, ma ciò che temiamo di diventare, cioè fantasmi di desideri non vissuti, prigionieri di un’estetica che ci divora.
MARCOS GUTIÉRREZ: IL CAOS DISCIPLINATO DI UN POETA VISIVO
Gutiérrez non crea, ma stratifica. Ogni strato di colore è un capitolo di un romanzo senza fine.
Le vernici lucide ricordano vetrine di negozi di lusso; i tratti a mano libera sono cicatrici su una superficie troppo perfetta. Il contorno nero che delimita i volti? Non è una scelta stilistica, ma una gabbia.
Quei profili da fumetto, così vicini ai nostri avatar digitali, svelano l’artificialità delle nostre identità curate.
Guardate quelle labbra: rosso acceso, sensuali, ma serrate in un silenzio che grida. È qui che l’artista gioca col fuoco, perché, da un lato ci invita a toccare la bellezza, dall’altro ci punge con spilli immaginari per cogliere le ambiguità del nostro tempo.
IL LINGUAGGIO DEI SIMBOLI: QUANDO UNA BOTTIGLIA DI CHAMPAGNE DIVENTA UNA PREGHIERA
Prada, Louis Vuitton, scritte come “LOVE” o “SWEET”.
Non sono citazioni. Sono reliquie di una religione senza dio che è la dimensione imperante della contemporaneità in cui siamo incastrati.
Gutiérrez trasforma i simboli del consumo in icone sacre, ma le lacrime che solcano i volti delle sue donne, perfette come statue di marmo, svelano il tradimento.
Quel cuore stilizzato non batte: è un ologramma.
L’artista usa il kitsch come un bisturi, incidendo la superficie dorata del sogno capitalista per rivelarne il vuoto. Eppure, in quel vuoto, c’è poesia.
Le scritte “POY SWEET ORIGINAL” sono SOS lanciati in un oceano di omologazione.

LA FILOSOFIA DEL DUALISMO: RIDERE CON LE LACRIME AGLI OCCHI
Gutiérrez non crede nelle risposte, infatti ama le domande che bruciano.
Le sue opere sono ossimori visivi di gioia e dolore fusi in un abbraccio mortale.
I volti femminili, così vicini all’ideale di bellezza, hanno occhi che raccontano storie di solitudini notturne. Gli sfondi esplosivi, quei graffiti che sembrano urla congelate, sono la colonna sonora di un’epoca ansiosa.
L’artista ci chiede cosa resti di noi quando spegniamo gli schermi, quanto pesi la maschera che indossiamo ogni mattina.
E la sua arte non giudica, ma accarezza e graffia, come un amante che conosce ogni tua ferita.
PSICOLOGIA DEL COLORE: SINESTESIE DELL’ANIMA
Il rosso non è solo rosso. È un pugno nello stomaco, un desiderio represso. E il giallo acido dei sorrisi? È il sapore amaro della finzione.
Gutiérrez compone con i colori come un poeta con le metafore, infatti, ogni tonalità è un’emozione tradotta in codice visivo, dove il blu degli occhi di una bambina, freddo, glaciale, è un lamento per un’innocenza perduta.
E quei contrasti tra arancione e blu non sono armonie, bensì conflitti.
L’artista trasforma il caos cromatico in una forma di redenzione. Le sue tele, pur nella loro violenza, emanano una dolcezza straziante, come fiori che crescono nel cemento.
GUARDARE OLTRE LO SPECCHIO
Marcos Gutiérrez non è un artista. Sarebbe limitante definirlo con un solo termine.
Perché non è solo pittore, poeta visuale e attento osservatore del nostro tempo, ma anche un sociologo, nonché un cartografo delle emozioni umane.
Le sue opere non vanno osservate, ma vissute, come un tuffo in acque gelide che ti risvegliano la pelle.
In un’epoca di risposte facili e like effimeri, lui ci costringe a fermarci per riflettere sulla vita. A guardare quelle crepe nella perfezione, quelle solitudini nascoste dietro un filtro.
La sua arte è un invito a strappare le maschere, a riconoscere la bellezza nelle nostre imperfezioni. Perché, in fondo, siamo tutti quei volti delle sue opere: splendidi nella nostra fragilità, eterni in una danza tra luce e ombra, che ha il sapore del non detto, della paura di esporsi. Spesso, della paura di vivere.
